TRIESTE
SOTTO 5 BANDIERE
1945-1954
1945
-LA
CORSA PER TRIESTE
-L'OCCUPAZIONE
JUGOSLAVA E L'ARRIVO DEGLI ALLEATI
La
politica jugoslava, appoggiata a quei tempi da tutti i partiti
comunisti, compreso quello italiano, rispondeva al motto di
Tito, "chiedere tutto per ottenere molto".
Lancia
le sue pretese sul territorio italiano fino alle porte di Udine,
asserendo che i centri urbani italiani della Venezia
Giulia (Fiume, Pola, Parenzo, Rovigno, Trieste, Grado,
Monfalcone, Gorizia ) e del Friuli (Cormons, Cividale, Tarcento)
avrebbero dovuto subito seguire il destino del retroterra
carsico sloveno.
La
Slovenia, quale risultava costituita dai decreti di
organizzazione territoriale comunisti nel maggio del 1945,
avrebbe compreso entro il proprio territorio, fra la pianura
friulana e Pirano, una massa di circa 450 mila Italiani, ciò
che vuol dire una «minoranza» pari quasi a un terzo di tutta
la nazione slovena.
Ma
altri 200.000 italiani risiedevano nei territori pretesi da Tito
per la Croazia. (dati di Carlo Schiffrer).
Questo
concetto, della preminenza della campagna sulla città, è
tuttora un caposaldo della cultura slava.
Scriveva
il socialista Carlo Schiffrer ( cui è intitolata la sezione DS
di Trieste) nel 1946:
"Le
due nazioni che si contendono la regione non potrebbero essere
più diverse, perché l'una è la nazione cittadina e l'altra la
nazione campagnola. E qui non vogliamo alludere semplicemente al
fatto geografico locale che gli Italiani in complesso abitano le
città della regione e gli Slavi le campagne, ma al fatto di
portata ben più vasta che l'indole e il modo di pensare delle
due nazioni sono affatto diversi, in quanto diversa è la loro
storia.
L'Italia è una terra di città; la sua storia è una storia di
città. In Italia la città, fino dai tempi antichi, non è
soltanto un mercato o un porto, un centro di produzioni
manifatturiere, un centro amministrativo e culturale; essa è
anche il centro da cui escono gli atti di intelligenza ed i
capitali che trasformano e rendono intensiva l'agricoltura, che
rendono prospera la stessa vita di campagna. In una parola la
città è il centro della vita nazionale. La campagna, invece,
vi occupa un posto affatto secondario.
La psicologia del linguaggio rispecchia esattamente questo stato
di cose. L'Italiano è portato per istinto a chiamare la
campagna stessa col nome della città. I termini come Udinese,
Trevigiano, Padovano, ecc., sono usati correntemente per
indicare la campagna intorno alle rispettive città. Proprio ai
limiti della nazione abbiamo un esempio anche più tipico: un
nome di regione, Friuli, deriva da un antico nome di città,
Forum Julii, l'odierna Cividale. Significativo pure un altro
fatto: le voci collegate etimologicamente con la città, come
civile e urbano, hanno un significato apprezzativo, mentre
quelle collegate etimologicamente con la campagna, come rustico
e villano, hanno un significato opposto, spregiativo.
Le popolazioni jugoslave invece sono tipicamente campagnole. La
città è una creazione estranea ad esse. Quelle che sono le
attuali città jugoslave sorsero e si perpetuarono fino pochi
decenni or sono come colonie di mercanti, di artigiani o
di militari di altre nazioni; fino a tempi molto recenti esse
non ebbero con le campagne circostanti altro vincolo se non
quello derivante dallo scambio delle cose più necessarie alla
vita, come navi ancorate ad una spiaggia straniera. Del resto
diverso il genere di vita, diversa la lingua, diversa la cultura,
diversa la convivenza sociale, la legislazione,
l'amministrazione. Ad esempio, Lubiana e Zagabria erano isole
tedesche in un mare slavo. Nei centri della Voivodina
prevalevano gli elementi ungheresi; in quelli della Balcania
prevalevano o Turchi, o Rumeni o Greci; le città costiere della
Dalmazia erano italiane.
Ma le sfrenate pretese di Tito finivano coll'
inglobare non solo città ma anche estese campagne
friulane ed istriane che rano invece compattamente italiane.
I
decreti rivoluzionari di organizzazione territoriale dello
scorso maggio e le richieste presentate dal governo jugoslavo
durante la conferenza dei Ministri degli Esteri a Londra ed a
Parigi, si spingono più in là possibile, fino a Cormons,
Cividale, Tarcento, Resiutta e Pontebba, vale a dire fino ad una
linea che comprende le principali strade pedemontane ed i centri
amministrativi che si ritengono "necessari alla vita delle
popolazioni slovene delle zone collinose o montane".
In tutte queste considerazioni è evidente l'influenza che il
nazionalismo politico dei popoli slavi ha avuto sulla loro
storiografia.
Per Trieste e per le altre città dell'Istria non è neanche il
caso di parlare di un'origine simile a quella di "colonie
italiane" come asserito dagli slavi.
Per
tutto il medioevo – in diretta continuità con la latinità
romana – il loro sviluppo storico è del tutto simile a quello
dei Comuni italiani, vale a dire delle Repubbliche cittadine
italiane. Trieste conservò questo suo carattere anche quando le
vicende generali del secolo XIV e XV la portarono a far parte
dei cosiddetti «Stati ereditari» di Casa d'Austria.
Gran parte delle cittadine istriane, fino a pochi decenni fa,
erano centri di agricoltori italiani, i quali la mattina
uscivano dalla città per recarsi a lavorare nelle terre
circostanti e vi rientravano la sera. Quest'uso – comune a
molte parti d'Italia – continua tutt'ora in alcuni centri come
Rovigno, Valle, Dignano, Gallesano, ecc., i quali sorgono tutti
in mezzo a campagne prive di abitazioni. Nelle altre città
italiane dell'Istria il fenomeno non è scomparso, ma, dove le
condizioni geografiche e soprattutto la possibilità di
rifornimento idrico lo permettevano, molti
agricoltori-proprietari hanno costruito le proprie abitazioni e
le proprie fattorie di campagna. Anzi in alcune parti
dell'Istria sono di uso corrente due termini dialettali molto
caratteristici: «paulan» (da pabulum) e «cortivan» (da
cortivo = corte, fattoria). Il primo serve a designare
l'agricoltore che abita in città, il secondo l'agricoltore che
ha stabilito la propria dimora in una fatto-ria di campagna.
Anche
Trieste, fino a due secoli fa, conservò in gran parte il
carattere di un centro di agricoltori italiani. Le campagne
intorno alla città erano coltivate dai cittadini stessi. La
popolazione della città oscillava fra i 3 ed i 5 mila abitanti
e questi trova-vano risorse sufficienti nella coltivazione delle
terre circostanti e nello sfruttamento di poche saline.
L'addentellato con la campagna scomparve appena nella seconda
metà del secolo XVIII. Allora la politica del governo austriaco
fece della città un emporio commerciale-marittimo. Gli
agricoltori-cittadini trovare conveniente spostare la propria
attività dalla campagna al porto. Le terre circostanti furono
acquistate da qualche patrizio e soprattutto da borghesi
arricchiti, e furono date in affitto a contadini slavi. In tal
modo ebbe origine lo slavismo suburbano il quale ancora oggi è
in gran parte contadino.
Così, mentre in Istria una colonizzazione italiana usciva dalle
città murate per estendersi alle campagne, a Trieste avveniva
una differenziazione sociale fra l'elemento italiano e quello
degli immigrati slavi.
Né
più né meno di quanto avviene oggigiorno con gli immigrati
extracomunitari. Gli Italiani si dedicarono esclusivamente alle
attività portuarie, marinare, commerciali, industriali,
amministrative, ecc. e lasciarono la coltivazione della terra
soltanto agli Slavi. Perciò le città istriane sono circondate
da una fascia più o meno estesa di campagne pure italiane,
mentre a Trieste gli agricoltori slavi, due secoli or sono,
furono portati fino ai margini della città.
Questa nelle sue linee fondamentali fu l'evoluzione storica di
Trieste e delle città istriane. "
La
commissione internazionale sui confini
Per
mediare queste posizioni le grandi potenze costituirono nel 1946
una commissione che avrebbe dovuto andare sul posto, studiare
documenti e analizzare statistiche. L’idea, in sé buona,
aveva due difetti. I quattro grandi avevano già deciso quattro
linee differenti e non le avrebbero certo cambiate dopo i lavori
della Commissione. Inoltre la Commissione non conosceva la
regione; infatti tanto per cominciare non avrebbe visitato Fiume
e le isole del Quarnero ritenendole croate.
Tutta
la regione da visitare inoltre era già da un anno sotto
l’amministrazione slava che all'arrivo della Commissione
poteva a piacere organizzare manifestazioni filojugoslave
con la mobilitazione di gruppi croati prelevati dall’interno
della Jugoslavia, mentre gli abitanti veri, gli italiani,
dovevano chiudersi in casa o ricorrere a canali clandestini. Gli
slavi condussero una campagna capillare e martellante i cui
estremi raggiunsero e superarono quelli toccati durante il
fascismo, ad esempio con la slavizzazione dei cognomi sulle
lapidi dei cimiteri.
Come
al solito il troppo stroppia e i commissari si acccorsero
benissimo di diverse delle messinscena jugoslave.
La
Commissione visitò cinque città e ventisette paesi
dell’Istria occidentale, senza passare per le isole di Cherso
e Lussino e inviando a Fiume una semplice "delegazione
economica". A dimostrazione dell’efficienza della
propaganda jugoslava possiamo ricordare che su 4000 petizioni
" di cittadini" pervenute alla Commissione, 3650 erano
filo-slave.
Nelle
conclusioni i quattro commissari riconobbero che l'Istria
occidentale era in maggioranza italiana mentre l'orientale
era croata ma con forte minoranza italiana.
Però
quando fu il momento di tracciare una linea confinaria, i
quattro Paesi disegnarono quattro linee differenti, che nulla
avevano a che fare con la relazione della Commissione.
Al
"plebiscito" erano tutti contrari, compresa l’Unione
Sovietica che senza alcuna votazione aveva appena incorporato i
territori Baltici. La stessa Italia non spinse mai troppo per
questa soluzione poiché un plebiscito in Istria che, se svolto
in un clima neutrale sarebbe stato molto probabilmente vinto
dagli italiani, avrebbe creato un pericoloso precedente per
l’Alto Adige e la Valle d’Aosta, dove fare una consultazione
popolare avrebbe dato invece esito largamente sfavorevole.
Durante
la Conferenza di Potsdam, durata dal 17 luglio al 2 agosto 1945
i capi di governo della Gran Bretagna, dell’Unione Sovietica e
degli Stati Uniti stabilirono che il primo trattato di pace dopo
la seconda Guerra Mondiale dovesse essere concluso con
l’Italia. Il Consiglio dei Ministri degli Esteri di queste tre
nazioni, con l’aggiunta di un rappresentante francese, iniziò
i lavori nel settembre e nel luglio dell’anno successivo aveva
pronto un progetto per la Conferenza di Pace di Parigi. I
delegati dei 21 Stati che avevano dichiarato guerra all’Italia
approvarono il testo senza grandi cambiamenti. Il 10 febbraio
1947 i delegati dei 21 paesi firmarono ufficialmente il nuovo
Trattato di Pace con l’Italia.
Il
problema più importante che caratterizzò i lunghissimi lavori
della Conferenza di Pace con l’Italia, gettando la popolazione
istriana in una sorta di panico collettivo, fu quello della
nuova linea che avrebbe costituito il confine orientale del
nostro paese.
Il
Ministro Bidault, plenipotenziario francese, riconobbe
l’eroico coraggio della Jugoslavia nella lotta contro il
nazi-fascismo. La linea confinaria proposta dalla Francia era
una tipica linea di compromesso diplomatico fra le proposte
occidentali e quelle russe; essa introduceva un criterio
geografico nuovo con il taglio trasversale dell’Istria
all’altezza del fiume Quieto e lo giustificava con il
principio della "bilancia etnica", una specie di
taglio salomonico che prevedeva un’equivalenza nel numero
delle minoranze che avrebbero dovuto vivere oltre confine. Uno
degli errori di questa proposta fu che la base dei calcoli dei
francesi era il censimento austro-ungarico del 1910, molto
sorpassato e tra tutti i censimenti il più sfavorevole, per
consapevole scelta austriaca, agli italiani.
Molotov,
il massimo esponente della diplomazia sovietica, invece appoggiò
tutte le richieste del nazionalismo jugoslavo più spinto; la
linea russa correva parecchio ad occidente dello stesso confine
italo-austriaco del 1866, chiedendo di annettere così al nuovo
stato socialista territori compattamente abitati da italiani in
cui c’erano nuclei insignificanti di popolazione slava. La
linea russa arrivava alle porte di Udine.
La
linea inglese e quella americana grossomodo coincidevano,
tracciate con il criterio di assegnare all’Italia i territori
dei comuni costieri nei quali gli italiani rappresentavano la
maggioranza o addirittura la totalità della popolazione; per
contro tutti i centri italiani dell’Istria interna ed
orientale, nonché il grande centro italiano di Fiume, dovevano
passare alla Jugoslavia.
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Storia
dell'esodo dall'istria
7/10/1954
- Albaro Vescovà -
Ondata
di profughi dall'Istria.
Poche
ore dopo la firma del memorandum con cui l'Italia rinuncia
momentaneamente a reclamare la zona B una lunga fila
di profughi che stavano resitendo da quasi dieci anni
l'occupazione jugoslava, persa ogni speranza,la abbandona .
L’esodo
che si verificò tra il 1949 e il 1956 fu quello forse meno noto
e meno sentito dall’Italia: esso interessò gli italiani
della “zona B” del Territorio libero di Trieste che con
percentuali assai rilevanti (85%), abbandonarono le loro terre
per trasferirsi in Italia o all’estero.
Complessivamente
il numero di esuli da tutta l'Istria, Fiume e Dalmazia–
difficile da determinare, a causa delle diverse ondate di
emigrazione – può essere indicato intorno a 350 mila unità,
comprendendo tutti coloro che fuggirono, tra il 1943 e il 1956,
da Zara, da Fiume, dall’Istria, dalla zona B nonché dai
20 piccoli villaggi della zona A che passarono anch'essi alla
Jugoslavia appena nel 1954 in seguito agli “aggiustamenti”
del Memorandum d’Intesa.
Si
trasferirono a Trieste o in altre zone d’Italia, ma ancor più
numerosi all’estero, il più lontano possibile da dolore
e ricordi (Canada,Usa,Australia).
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Risulta
dallo studio delle schede dei profughi che l’esodo degli
italiani dalle terre cedute interessò tutte le fasce della
popolazione, indipendentemente dal ceto e dalla colorazione
politica dei singoli: è pertanto errata la convinzione che
siano emigrati i “fascisti” o i “capitalisti”, come le
autorità jugoslave e parte della sinistra italiana hanno
sostenuto per molto tempo.
Il
fatto che coralmente ma senza, nella maggioranza dei casi, una
organizzazione effettiva, si sia verificato un esodo di tale
portata non può che indurre ad una conclusione ben precisa: il
nuovo governo jugoslavo non assicurava né la tutela della
lingua italiana, né la tutela fisica della comunità, né la
tutela economica delle proprietà che gli italiani possedevano.
In altri termini, il nuovo fenomeno al quale le popolazioni
italiane assistettero tra il 1943 e il 1956 fu quello di un
nuovo “padrone” che impostava la politica di
denazionalizzazione puntando su tre obiettivi ben precisi: la
eliminazione fisica, la marginalizzazione economica e la
denazionalizzazione culturale. Nonostante l’assenza di
giornali e di altri mezzi di diffusione della opinione pubblica,
questa situazione fu percepita nella sua assoluta, insolita
rispetto al passato e straordinaria gravità da centinaia di
migliaia di persone in momenti diversi e in zone diverse: questo
non solo spiega l’esodo, ma questo spiega anche la difficoltà
degli esuli a considerare, dopo cinquant’anni, “normali”
le relazioni con quelle terre, tanto da avere riluttanza a
ritornarvi, così come spiega anche i gravissimi problemi che
incontrarono gli italiani rimasti, che più di altri subirono,
nonostante il consenso dato all’ideologia del regime
totalitario, la politica di denazionalizzazione e di
emarginazione: a conferma che non si trattava di una questione
semplicemente ideologica e politica ma di un problema
fondamentalmente nazionale, anzi nazionalistico, con
implicazioni più ampie di carattere culturale ed economico.
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1946
-LA
VISITA DELLA COMMISSIONE ALLEATA PER I CONFINI
Nella
Conferenza di Pace parigina l’Italia deve subire gli assalti
verbali del delegato russo Visinskij, famigerato artefice delle
purghe staliniane e responsabile della morte di quasi tutti i
principali dirigenti del partito bolscevico, il quale senza mezzi
termini dichiarò Trieste e l’Istria indiscutibilmente
appartenenti alla Jugoslavia.
La
voce italiana era la voce di un paese sconfitto, anche se
ufficialmente cobelligerante, un paese semi-distrutto da due anni di
guerra civile, e da venti di una pesantissima dittatura che ne aveva
minato la coscienza collettiva. Non dimentichiamo che le forze
italiane di sinistra, almeno fino all’esclusione della Jugoslavia
dal Cominform nel 1948, erano più propense ad appoggiare le tesi
russo-slave piuttosto che quelle italiane, probabilmente impaurite
dal possibile rinascere di un pericoloso nazionalismo e desiderose
di veder arrivare più ad ovest possibile la "cortina di ferro".
Qualche
settimana dopo, per riparare al moto d’indignazione sollevato in
Italia dalle parole del sovietico, Palmiro Togliatti rilasciò
un’inquietante intervista in cui prospettava lo scambio di Trieste
con Gorizia.
1947
- LA CONFERENZA DI
PACE DI PARIGI
-LA
PERDITA DELL'ISTRIA
-LA
NASCITA DEL TERRITORIO LIBERO
La
proposta di Togliatti non ebbe alcun seguito, ed il 20 gennaio 1947
la conferenza di Pace stabilì definitivamente i confini.
Il
10 febbraio 1947 fu firmato il Trattato di pace che regolò la
situazione dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Dopo
diciassette mesi di trattative il Governo italiano fu costretto a
firmare, nel Salone dell’Orologio al Quai d’Orsay, una pace
punitiva che privava l’Italia dell’Istria, di Fiume, di Zara,
nonché delle isole adriatiche.
L’Assemblea
Costituente italiana non poté fare a meno di approvare il Trattato,
ratificandolo il 31 luglio successivo con 262 voti favorevoli, 80
astenuti e 68 contrari.
A
ben poco valsero gli appelli e i ragionamenti di De Gasperi, che
sottolineava come l’Italia si fosse battuta contro il fascismo e
che raccomandava di non riunire in una sola immagine negativa le
responsabilità del regime fascista e quelle della nazione italiana
nel rapporto con sloveni e croati; a nulla valse l’impegno di mons.
Santin, vescovo di Trieste, la cui sovranità pastorale si estendeva
anche nella “zona B”.
Ben
più rilevanti, a livello di peso politico, furono le rivendicazioni
jugoslave, appoggiate dalla potenza sovietica, la quale vedeva
realizzarsi il vecchio sogno di potersi affacciare, attraverso lo
sbocco sull’Adriatico, sui “mari caldi”.
Una
beffa, considerato che la gran parte della popolazione jugoslava, e
croata e slovena in particolare, era stata collaborazionista coi
nazisti mentre centinaia di migliaia di italiani erano morti nella
guerra di liberazione dal nazifascismo contribuendo a liberare anche
zone del sud della Jugoslavia.
Tra
quelle proposte fu scelta la linea francese, già di per sé la
linea più sfavorevole all'Italia dopo la russa, ma poiché
Tito aveva l'incondizionato appoggio sovietico, i delegati
finirono col togliere ulteriore territorio agli italiani,
creando per Trieste uno Stato cuscinetto.
La
sorte ed il futuro di Trieste restarono perciò ancora un'incognita
mentre Gorizia venne liberata e la popolazione in massa andò
incontro alle truppe della "Mantova" che, guidate dal
colonnello Gualano, entrarono a Gorizia il 16 settembre 1947.
Sulla
base di una linea di demarcazione proposta originariamente
come confine tra Italia e Jugoslavia dai francesi, fu creato
il TLT TERRITORIO LIBERO DI TRIESTE.
Fu
allegato lo Statuto del nuovo Stato, in cui si stabiliva che il
Governatore del TLT doveva essere nominato congiuntamente dai 4
grandi, ovvero Francia, Gran Bretagna , Urss e Stati Uniti. Non
poteva essere né un italiano né uno jugoslavo. Un diplomatico
svizzero fu il nome proposto dagli occidentali e subito rifiutato
dai sovietici.
La
costituzione del TLT quindi non poté avvenire concretamente e in
pratica si mantenne lo status quo, sotto nuova denominazione.
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1948
- Parata delle truppe a Trieste, sul palco il Comandante
della zona A del Territorio libero.
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ENTRATA
IN VIGORE DEL TERRITORIO LIBERO
Il
15/9/1947 Trieste città e il circondario settentrionale formano
quindi la zona A del TLT, circa 220 kmq. e 260.000 abitanti,
amministrata congiuntamente da inglesi e americani. Degli abitanti
230.000 sono italiani ( Trieste città, la stretta fascia costiera e
la zona di Muggia), e 30.000 sloveni o croati, abitanti perlopiù
nei sobborghi e nel Carso.
1947/48/49/50/51/52/53/54
I
distretti di Capodistria e Buie formano la zona B, con
520 kmq. e 70.000 abitanti, ( 51.000 italiani e 19.000 slavi ) dove
continua l'amministrazione militare degli jugoslavi , che anzi,
senza subire più alcuna interferenza continueranno con più
decisione l'opresssione degli italiani, che partiti in schiacciante
maggioranza diminuiscono ogni giorno e sempre meno possono
fare di fronte alle efferate forze militari e di polizia jugoslave.
I
centri della costa erano totalmente italiani ( 97 %) , quelli
dell'interno in larga maggioranza italiani.
In
campagna invece su 25.000 abitanti gli italiani erano 9.000,
concentrati intorno ai centri urbani e nelle campagne compattamente
italiane del Buiese, e gli slavi 16.000.
Il
controllo internazionale ebbe efficacia a Trieste, sottoposta
al controllo amministrativo e politico alleato, ma scarso o nullo fu
il suo peso nella “zona B”.
Il
governo Jugoslavo non rispetta gli accordi sottoscritti con il
Trattato di Pace del 1947 che prevede, tra l'altro, anche l'uso
ufficiale della lingua italiana, la libertà di pensiero e di
comunicazione, di transito delle merci e la facilitazione per i
passaggi di frontiera: la sovranità politica jugoslava cancella i
diritti umani fondamentali dei cittadini della zona B tanto da
indurre inglesi e americani ad abbandonare il progetto del T.L.T.
D’altra
parte, la rapida conversione dell’economia locale verso i canoni
dell’economia collettivistica (una legge che rendeva legittimo
l’esproprio dei fondi agricoli senza corrispettivo per il
proprietario era già immediatamente stata varata nell’agosto
1945) fece ben presto comprendere come la situazione per Belgrado
fosse tutt’altro che transitoria, in attesa di una definizione
diplomatica, ma che si voleva rapidamente porre le autorità
internazionali di fronte ad un fatto compiuto.
Ciò
che comunque determinò la fine delle illusioni fu la pesante
politica di nazionalizzazione forzata a danno dell’elemento
italiano, attraverso persecuzioni, allontanamenti coatti,
eliminazioni, deportazioni, internamenti in campi di concentramento.
E che tali strumenti non fossero soltanto la macabra risposta alla
politica di nazionalizzazione del fascismo, ma piuttosto il
tentativo di cancellare dal territorio una presenza italiana che
nelle città e in molte zone anche interne era maggioritaria, fu
chiaro fin dall’inizio anche a quei partigiani che, in nome
dell’antifascismo, avevano in un primo tempo appoggiato il
comunismo titino.
Molti
italiani di tutti i ceti sociali, resistettero quasi un decennio
nella loro terra sperando nella provvisorietà dell'amministrazione
slava e in un futuro ritorno all'Italia o perlomeno nella
reale costituzione del governo del Territorio Libero.
L'opera
di jugoslavizzazione si concentrò sulle città della costa e
ironicamente oggi i pochi paesi in cui ancora vive una proporzione
consistente di italiani sono quelli delle campagne interne ( Momiano,
Verteneglio).
Il
20 marzo 1948 Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna,
prepararono una Dichiarazione Tripartita nella quale si
auspicava per la prima volta
il ritorno di tutto il TLT (sia zona A che zona B ) alla
sovranità italiana. Ciò provocò un’ondata di commozione e di
speranza nel nostro Paese, a ridosso delle elezioni del 1948, ma già
dal giugno 1948, epoca della rottura tra Tito e Stalin,
l’atteggiamento degli Alleati iniziò a modificarsi.
L'opportunista
Tito diventava importante per l'altrettanto opportunista
schieramento occidentale, e quindi non andava ostacolato.
Così,
anche la questione di Trieste e
delle zone A e B subirono, ancora una volta, una battuta d’arresto.
Trieste, il cui destino sembrava ancorato a giochi di potere tra le
Potenze internazionali, era così diventata la “Berlino
dell’Adriatico”, al centro delle tensioni della Guerra Fredda.
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1953
-LA POPOLAZIONE ASSALTA LA SEDE DEL "FRONTE PER L'INDIPENDENZA DEL
LIBERO STATO GIULIANO- FRONTA ZA NEDOVISNJE SVOBODNE
PRIMORSKE DRZAVE"
(ORGANIZZAZIONE
DI COPERTURA DEGLI AGENTI JUGOSLAVI A TRIESTE)
|
Nell’agosto
1953 una nota diramata da un’agenzia jugoslava rilevava il
proposito d’annessione della zona B ( dove ancora resistevano ad
ogni sopruso i 50.000 italiani ) da parte di Belgrado, e questo
chiaramente determinò enorme sconcerto in Italia. L’allora
Presidente del Consiglio, Giuseppe Pella, non esitò a mobilitare le
truppe, nonostante la recente adesione alla NATO. Tutto si risolse
in uno scambio di
veementi accuse a distanza tra Capi di Stato, e Pella non mancò di
ribadire il concetto che anche la zona “B” sarebbe comunque
appartenuta all’Italia, nonostante la massiccia presenza militare
jugoslava. L’8 ottobre, al fine di dirimere ogni ambiguità e di
allentare la tensione, Londra e Washington annunciarono
l’intenzione di affidare la sola zona “A” al governo italiano.
A
ciò seguirono enormi dimostrazioni di folla a Trieste, represse
purtroppo nel sangue (sei morti) dalla polizia giuliana sotto
comando britannico (fatti di sangue del 5 e 6 novembre 1953). I
dimostranti si videro tra l’altro accusati di “risorgente
fascismo” dai soliti compagni comunisti nostrani; ciononostante,
ai funerali dei patrioti italiani intervenne la totalità
della città, si calcolarono oltre 250.000 persone, a testimonianza
del sentimento d’italianità che andava ben di là degli steccati
partitici.
Manifestazioni
anche in Jugoslavia, con assalti ai consolati italiani, e a Pola e
Fiume distruzione delle insegne bilingui delle strade e dei negozi.
Sono passati cinquanta anni e tali insegne in italiano non sono mai
più state ripristinate nè a Pola nè a Fiume. Iniza pure la
chiusura delle scuole italiane in Jugoslavia.
Dal
1952 al 1954 la questione di Trieste entrò in una fase dinamica,
che impegnò a fondo la diplomazia italiana e quella anglo-americana.
Era ormai chiaro che il tempo lavorava a favore della Jugoslavia, la
cui amministrazione della Zona B si stava trasformando in possesso.
Diego de Castro ricostruisce, con grande puntualità e precisione,
quella fase diplomatica, invero poco e mal nota. Mi riferisco
soprattutto, agli sforzi della diplomazia statunitense per giungere
ad una soluzione del problema triestino, sulla base di una
spartizione accettabile ad entrambe le parti.
La prima proposta venne dal segretario di Stato Acheson. Essa
prevedeva il passaggio all'Italia della Zona A più una striscia di
territorio costiero della Zona B sino a includere Capodistria mentre
il rimanente della Zona B e una parte equivalente di territorio
della Zona A (Sesana) doveva andare alla Jugoslavia. Di fronte alle
resistenze italiane, il successore di Acheson al Dipartimento di
Stato, Foster Dulles , estese la striscia del territorio costiero
della Zona B da assegnarsi all'Italia sino a comprendere Isola
d'Istria e Pirano, contro la cessione alla Jugoslavia di altri due
comuni della Zona A, S. Dorligo e Sgonico, ed in più l'offerta di
uno sbocco al mare a S. Caterina. A De Gasperi, uomo di confine lui
stesso, la proposta americana parve accettabile solo se la cessione
della zona costiera potesse raggiungere sino Umago inclusa.
*
* *
Da
Londra intanto giungevano segnali di tipo opposto. Il Foreign Office
non credeva in una accettazione da parte di Tito della proposta
americana come poi avvenne; e di fronte all'opera di
snazionalizzazione della Zona B da parte del Maresciallo Tito,
suggeriva il semplice e definitivo trasferimento all'Italia della
Zona A ed alla Jugoslavia della Zona B. La terza proposta americana
non segnò un progresso rispetto alle precedenti. Essa includeva una
striscia di due chilometri della Zona B che giungeva sino a
comprendere Pirano ma non Portorose, ma trasferiva alla Jugoslavia i
comuni di Sgonico, Monrupino, e Basovizza della Zona A. Il
maresciallo Tito comunque la respinse.
Da quel momento il libro di de Castro ricostruisce minuziosamente le
fasi, ignote o poco note, delle trattative che portarono alla firma
del Memorandum d'intesa nell'ottobre del 1954: dai sondaggi
jugoslavi del 1953 al ridimensionamento delle prospettive su Trieste
dopo le elezioni politiche italiane, dalla sostituzione di De
Gasperi con Pella all'invio di truppe italiane al confine jugoslavo,
dal rifiuto di Belgrado alla proposta italiana di un plebiscito,
alla dichiarazione anglo-americana dell'ottobre 1953 sul ritorno
della Zona A all'Italia, dalle giornate di sangue e di morte a
Trieste, alle proteste jugoslave e al ricorso sovietico all'Onu,
infine alla conferenze di Londra del 1954
Sulla
scia di questi tragici avvenimenti, il 5 ottobre 1954 veniva
siglato un Memorandum d’Intesa, in cui si affidava la zona A
all’Italia; la mattina del 26 ottobre 1954 i bersaglieri entravano
nella città di Trieste tra un tripudio di bandiere e gli applausi
di una folla immensa e festante: Trieste era tornata per la seconda
volta all’Italia, dopo immani sacrifici.
Nel
Memorandum nulla invece veniva deciso circa la zona B, che rimase in
amministrazione jugoslava. Gli italiani rimasti, vessati e
impoveriti dal comunismo, persa ogni speranza iniziarono ad emigrare
e venti anni dopo, il governo Rumor pensò bene di “disfarsi”
della questione istriana, lasciando alla Jugoslavia pieno possesso
di una regione legittimamente italiana. Un ennesimo tradimento delle
aspettative dei poveri profughi istriani.
Fonti
:
Bogdan
NOVAK, Trieste 1941-1954: the ethnic, political and ideological
struggle, Chicago - London, The University of Chicago Press, 1970
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"L'esodo" di A.Petracco
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Ufficio Stampa CISL Friuli-Venezia Giulia
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